Renato Panciera | |
"La Forza tranquilla" Pralongo è un paesino che dal fondovalle di Zoldo proprio non vedi né immagini. Lassù vive Renato Panciera, fra boschi silenziosi chiusi in alto dall'immensa Civetta e dalla Schiara. Egli fa parte di quella categoria di grandi alpinisti che non ama far parlare molto di sé. Di mestiere fa l'apicoltore, e non ha mai pensato di diventare guida come molti altri alpinisti di queste valli. Ha preferito che la sua seconda passione non diventasse anche una professione. In
Civetta, la sua impresa più clamorosa risale probabilmente a quel 27
dicembre 1988, quando portò a termine l'invernale del Philipp-Flamm in
giornata. Degli ultimi anni, va ricordato il difficile itinerario aperto sulla Punta Civetta, dedicato a Eliana De Zordo (figlia del gestore del Coldai), scomparsa con Paolo Crippa in Patagonia. La sua etica è rigorosa, ma dichiarata sottovoce, senza eccessi: protezioni tradizionali e niente spit, neanche nello zaino: "Se li hai con te, prima o poi li usi, perché mentalmente sei già predisposto, proprio come quando parti e sei convinto dentro di te che non ce la farai, allora alla prima nuvola nel cielo, alla prima scusa molli. Tante volte ho visto che su un tratto estremo, dove sembrava impossibile salire altrimenti, concentrandosi, calmandosi, o magari ritirandosi e tornando un'altra volta più preparati e sereni, alla fine si passa. Nei limiti del possibile". Parlandogli insieme si capisce che è così: Renato, fisicamente molto dotato, un talento naturale ("farei le gare se fossi più giovane...") è soprattutto innamorato dell'arrampicata e ha dalla sua la forza tranquilla di chi ha fatto e fa cose eccellenti, per passione e basta. Lontano dalla ribalta, la montagna e le api: le due passioni di Renato." (da "ALP" n.159, 1998)
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Non vorrei parlare di me ma piuttosto di come vedo e vivo l'alpinismo, tuttavia per tentare di farmi capire, non posso esimermi da una breve nota autobiografica. Sono nato a Forno di Zoldo il 03.11.1952 e qui ho sempre vissuto ad eccezione degli anni di studio. Pur essendo abituato a muovermi in montagna, non ho avuto modo di avvicinarmi al mondo dell'arrampicata se non nell'estate del 1980 a 28 anni; negli anni precedenti avevo letto moltissimo di alpinismo e mi ero fatte in proposito delle idee molto chiare. Amare l'alpinismo e viverlo come parte integrante di me è stato, penso, una logica conseguenza di tutte le mie scelte precedenti: etiche, emotive, professionali, ecc. Aver iniziata l'attività alpinistica in età così "avanzata" è stato allo stesso tempo, ma per ragioni diverse, un handycap e anche un vantaggio: sicuramente uno svantaggio per la "carriera" alpinistica in quanto ho oggettivamente perso 10 o più anni di attività e per di più nell'età in cui, volendo, uno può dedicare tanto tempo essendo più libero da impegni di lavoro e di famiglia; anche un notevole vantaggio perché avevo le idee chiare e la maturità che mi hanno permesso di vivere l'alpinismo come una cosa solo mia, con grandi coinvolgimenti emotivi, ma anche con la consapevolezza e la certezza che non era tutta la mia vita ma solo una parte, solo una fase di essa e che dovevo viverla nel miglior modo possibile. Immagino che ci siamo molti modi di vedere e concepire l'alpinismo, per quel che mi riguarda ho sempre pensato, e così credo di averlo vissuto, che l'alpinismo sia una forma, se pur particolare, di arte, con una forte componente sportiva, certamente, ma anche una cosa creativa e che non può stare dentro a degli schemi rigidi o essere pianificata. Ritengo, ma è un'idea mia, che il valore alpinistico di un'impresa sia misurabile solo con le vie nuove e le salite invernali, sempre però in presenza di difficoltà tecniche elevate o elevatissime e anche in questi casi con molti distinguo. Una via nuova in ambiente estremo non è programmabile perché non sai quel che trovi, così ti porti al seguito l'armamentario solito, ma poi ti affidi all'istinto, all'intuito per decidere dove andare e come proteggerti e allora diventa una specie di creazione in cui tu sei l'attore protagonista. Lo stesso anche in ambiente invernale; magari l'hai percorsa in estate, la via, oppure conosci la relazione, ma con la neve e il freddo non puoi sapere esattamente cosa ti aspetta e allora anche qui devi fidarti della tua "arte" e del tuo "mestiere", che acquisti con gli allenamenti e con l'esperienza, come del resto in tutte le forme creative. Una salita, sempre per come la vedo io, viene privata della componente artistica quando si falsa l'etica (in alpinismo sarebbe molto rigida) ad esempio facendo largo ricorso a mezzi artificiali, corde fisse, ecc. Non è arte cioè tutte le volte che hai ucciso l'ignoto perché o hai preso o gli spit o i chiodi a pressione, o ti sei programmato di poter proseguire ad ogni costo prendendoti tanti giorni, tanto materiale, tante corde, telefonini, ecc. Adottando questo criterio, mi rendo conto che tantissime imprese anche eclatanti, pur mantenendo il valore sportivo, vengono private della componente artistica e quindi ridimensionate anche nel "valore alpinistico". Ho aperto più di 70 vie nuove di cui alcune di una certa rilevanza ma la salita nella quale sento di aver espresso il meglio delle mie capacità è l'invernale alla Punta Tissi lungo la via Philipp-Flamm in Civetta del 27 dicembre 1988. La proiezione verte sull'evoluzione delle salite in inverno iniziando come secondo di cordata e con grossi zaini pieni di materiale, alle invernali in giornata con pochissimi mezzi quindi scarsamente programmabili, ma con una grande preparazione atletica e psichica.
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